Nel divario tra dipendente e datore di lavoro che vogliono concludere il rapporto, c’è la NASpI: ora si può ottenere anche con un accordo.
Quando il dipendente non vuole più restare in un posto di lavoro, sa che dovrà resistere finché non troverà un nuovo impiego, oppure dovrà farsi licenziare per ottenere la NASpI. Tuttavia, non è così semplice come si possa immaginare, e per questo ancora oggi si generano dinamiche poco piacevoli sul posto di lavoro, una sorta di guerra senza armi.
Perché se da una parte il lavoratore sa cosa gli converrebbe, dall’altra lo sa anche il datore. Anch’egli ha infatti due strade, specialmente se la collaborazione non è più gradita: licenziarlo oppure aspettare che se ne vada da solo. Ma nella pratica, quasi sempre, viene scelta la seconda. Non per gentilezza, ma per convenienza.
Perché licenziare ha un costo – economico, legale, strategico – che molti titolari non sono disposti a sostenere. E così, anziché agire direttamente, si mettono in moto dinamiche più sottili: pressioni, spostamenti, mansioni ridotte all’osso, fino al punto da spingere il lavoratore a mollare tutto. La legge conosce benissimo queste dinamiche e, per tale motivo, offre una soluzione consensuale che in pochi applicano davvero.
Quando due parti viaggiano in un conflitto di interessi, difficilmente trovano un accordo consensuale e spesso finiscono in tribunale. Il datore, di fatto, deve versare il contributo addizionale NASpI (circa 500€ per ogni anno lavorato, fino a un massimo di 3 anni), e questo è uno dei motivi per cui molti preferiscono che sia il dipendente a dimettersi.
Ma se alla fine l’obiettivo è lo stesso – il lavoratore andarsene ricevendo la NASpI e il datore lasciarlo andare senza ulteriori costi – la legge consente di richiedere la NASpI con risoluzione consensuale, ossia un accordo tra entrambe le parti.
L’accordo va firmato in una sede protetta, come l’Ispettorato del Lavoro, un ente bilaterale o una sede sindacale. Non basta una stretta di mano: serve un verbale ufficiale che certifichi la volontà di entrambe le parti. Solo così l’INPS riconoscerà la NASpI, trattando l’uscita come ‘non volontaria’.
Dopo la firma, il lavoratore ha 68 giorni per presentare la domanda all’INPS. La procedura è semplice e consente di chiudere il rapporto senza tensioni o forzature.
Per il datore, è una tutela: evita cause, ricorsi e rischi di reintegro. Nessuna motivazione da fornire, nessun vincolo. Può gestire la sostituzione in piena libertà e, in alcuni casi, negoziare condizioni favorevoli, come la rinuncia a rivendicazioni o un preavviso più breve. Anche sul piano interno, l’uscita è ordinata: niente licenziamenti da spiegare, niente strascichi. Solo una chiusura condivisa, e pulita. E il lavoratore, dal canto suo, ha una copertura economica fino a quando non trova un nuovo impiego – sempre dentro alle tempistiche di erogazione.
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